Auschwitz. “Arbeit Macht Frei” e quella B capovolta

27 Gennaio 2016

Mai come oggi, 27 gennaio 2016, settantunesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, mi torna alla mente il mio viaggio tra Cracovia e Auschwitz fatto al freddo e al gelo di una Pasqua di anni or sono. Nevicava ad Auschwitz quando ci sono stata, una neve non molto fitta a dire la verità, portata dal vento più che altro, ma da un vento teso e gelido che ti penetrava fin dentro le ossa. Lì, in quel campo di macello non potevo non fermarmi a pensare a quei poveri disgraziati costretti, chi a lavorare fino alla sfinimento, chi direttamente messi in fila per le camere a gas, con i loro pigiami a righe e gli zoccoletti ai piedi. Si respira un’aria strana ad Auschwitz-Birkeanau, un’aria immota, ferma, statica; come se gli alberi, testimoni delle atrocità a cui l’uomo riesce ad arrivare, abbiano deciso di non partecipare al rigoglio della natura. Sembra tutto fermo, e quella staticità ti fa sentire ancora di più la forza prepotente del silenzio, quel fischio ovattato in lontananza di treni che arrivano ma che non vengono sentiti da nessuno. Auschwitz è forse il monumento alla memoria per eccellenza, e la memoria, in queto caso, va di pari passo con le atrocità che questa terra ha visto. Dall’altro lato della medaglia, però, c’è sempre la forza dell’uomo di non sottostare, per quanto possibile, alla cattiveria e, passatemi il termine, alla cattività.
Forse non tutti, presi dal peso sullo stomaco che costantemente si ha quando si passa sotto i cancelli del campo di concentramento e sotto la famosa scritta “Arbeit Macht Frei” – “Il lavoro rende liberi”, nota un piccolo, ma fortissimo particolare: la B.

arbeit

Un anelito di libertà. Una lettera scalfita, trascurata che per il suo essere messa lì in un determinato modo grida vendetta al cielo e ad un mondo precipitato nella notte della follia. E’ il 1940 ed un umile fabbro, prigioniero come tanti suoi compatrioti e altri disgraziati presi nella spirale folle di uno sterminio senza senso, viene scelto per ordine di Kurt Müller (uno dei tanti capi del campo), per creare quella scritta malsana che, come dirà Primo Levi saranno “le tre parole della derisione […] sulla porta della schiavitù”. L’ordine viene dall’alto, direttamente dal comandante Rudolf Höss e bisogna sbrigarsi. La decisione cade appunto su quella triste scritta mutuata da un passo del Vangelo di San Giovanni. “Wahrheit macht frei”, diceva quello, “la verità rende liberi”. Qui, a quanto sembra è il lavoro che renderà liberi. Triste e beffardo monito per chi supera quei cancelli. Come il nostro fabbro polacco, tale Jan Liwacz, non ebreo, numero di matricola 1010, entrato nel campo di sterminio il 20 giugno 1940. Lui dirige la “Schlosserei”, l’officina interna del campo, dove si saldano inferriate, cancelli, sbarre e dove, in un lontano giorno del 1940, Liwacz salda la triste scritta. Con un’unica ma sostanziale differenza: la B capovolta, con l’occhiello piccolo che risulta in basso rispetto al grande, anziché in alto come grafica e buon gusto impongono.
E’ un piccolo segno che però grida libertà. Libertà di pensiero. Una dignità ricercata, pensate un po’, con quel mezzo – la stampa – che i nazisti hanno già pensato bene di mettere al rogo, assieme ai tanti libri che di lettere, stampa e grafica sono fatti. I nazisti, forse troppo presi dalla loro barbarie, mai si resero conto del piccolo (per la grafica) ma grandissimo (per l’umanità) errore. Chissà, forse l’intento di Liwacz era un altro: avvertire chi oltrepassava quei cancelli che non c’era nessun lavoro che li avrebbe resi liberi. Non lo sapremo mai visto che Liwacz, riuscito a sopravvivere al campo di Auschwitz morirà ottantaduenne nel suo paese natale, Bystrzyca, tentando inutilmente di riavere la sua opera in ferro che, dopo la liberazione del campo da parte dell’armata rossa verrà caricata dai sovietici su un treno destinato all’Est. E’ solo grazie ad un ex internato, tale Eugeniusz Nosal, che possiamo vederla in loco. E lo scambio tra Nosal e un ufficiale russo ha del comico: barattata per una bottiglia di vodka.
Uno sberleffo, quello della B capovolta, che, ancora oggi, ci ricorda come la libertà sia l’unica cosa che conta.

Fate viaggiare...

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